Presentazione di Luigi Meneghelli
Giocare con lo spazio, giocare con le distanze. Chiudere in una scatola, come in una teca o in un’urna, lo sciame dei segni mondani. Cosmo in miniatura in cui si danno convegno molteplici materiali d’uso, senza però imporre il loro statuto di resti, di reliquie, senza esibire le loro qualità di oggetti dello scarto. Essi entrano nello stadio del l’apparenza non più come duchampiani prelievi, come fisiologie rimaste intoccate, ma come combinazioni celate dietro una vistosa manualità. La paralisi delle cose è così rimossa, si risveglia nella storia della costruzione, in quei gesti che fanno perdere il senso di sè tutte le materie, in quegli atti che investono le materie di una nuova energia, di un nuovo flusso vitale. Quasi un rito iniziatico di rigenerazione, che vuol rivelare la potenziale fertilità e sensualità delle sostanze del mondo.
Luciana Soriato sa di edificare su uno scacco, sa che non esiste promessa di profondo che possa venire direttamente dagli oggetti, ma sa anche che, spaesando gli elementi dal loro orizzonte funzionale, essi possono dare vita a delle immagini prime, o meglio celebrare il puro possibile della forma. Senza più aggettivi, senza più narratività. Specie di corpi che stingono la vita della scultura nel punto impercettibile del suo nascondersi e germinare, nel suo essere luogo di trasformazione da un segno all’altro, da un destino all’altro.
Forse era così anche per Ettore Colla e per quei suoi poemi di Ferri lambiti e vestiti dalle intemperie, ma lá il materiale continuava a raccontare se stesso e le peripezie del proprio uso. Qui tensione, peso, limite (la sintassi della scultura!) non si raccontano più: stanno negli innesti della materia, nelle articolazioni della forma, rintanati in se stessi come anime di amuleti. O come quel l’universo di cose da nulla di Joseph Cornell, chiuso in un “magic box” inquietante.
E così ritorna l’idea della scatola, del contenitore: ma se nell’artista americano si trattava di una finestra aperta sul traboccare di New York degli anni ‘50, in Soriato piuttosto diventa il segno del rifugio, del nascondiglio, della forma primordiale, la figura dove si avverano tutte le congiunzioni tutte le coniugazioni più segrete. “Notte crescente”( questo è il titolo della mostra) dunque, per dire di una scultura che interrompe lo sguardo e al tempo stesso lo mette in azione oltre se stesso. Verso ciò che rimanda ad una profondità senza fine, vero ciò che si pone come distanza o come distrazione. Distrazione, scarto dell’anomalia dei materiali e incontro con il prodigio elementare, magico del formare, anzi del trasformare. Del trasfigurare legni , cere, spaghi in meteore, orli d’ombra e di giorno, limiti di volo e di peso, fragilità efemeridi. Un mostrare il volto della “differenza” di un altrove che ci viene incontro per interrogarci, un mettere in opera la genesi dell’opera, la sua formazione, le tappe del suo transfert verso la luce. Come in Klee. Come in Melotti.
Mostra “Notte crescente” galleria “Capricorno” VE
dicembre 1989
Luigi Meneghelli